Francuccio Gesualdi - Dalla crescita al benvivere: programma per un’economia della sazietà

Per molti anni abbiamo creduto che fosse possibile risolvere la piaga dell’ingiustizia mondiale portando tutti gli abitanti del pianeta al nostro stesso tenore di vita. Ma alcuni segnali ci stanno ricordando che si tratta di un sogno impossibile. Il pianeta Terra non tiene il passo con i nostri ritmi di consumo perfino nell’ambito dei prodotti rinnovabili: consumiamo pesce ad una velocità superiore del 30% alla capacità di rigenerazione dei mari, tagliamo più foreste di quante ne ripiantiamo, consumiamo più prodotti agricoli di quanti ne raccogliamo. Gli inglesi lo hanno battezzato overshoot day, il giorno del sorpasso, nel 2009 è caduto il 25 settembre. Quel giorno la nostra voracità ha superato la capacità di rigenerazione della Terra. Finiti i frutti, abbiamo chiuso l’anno a spese del “capitale naturale”: invece che vitelli abbiamo cominciato ad abbattere mucche, invece che pesci figli, abbiamo mangiato pesci madre, invece che raccolti agricoli, abbiamo consumato i semi. Di questo passo fra il 2030 e il 2040 avremo bisogno di due pianeti solo per le risorse rinnovabili.
Non se la passa bene il cibo e non se la passa bene il petrolio ormai entrato nella sua fase discendente. Per non parlare dell’acqua diventata risorsa scarsa in molte aree del globo. Stessa situazione disastrosa sul lato dei rifiuti: le discariche ormai stracolme, stiamo moltiplichiamo gli inceneritori nel tentativo disperato di sbarazzarci dei nostri avanzi, non curanti dei danni alla salute che ci riservano. Intanto l’anidride carbonica continua ad accumularsi nella stratosfera peggiorando di giorno in giorno lo stato del clima.
È stato calcolato che se volessimo estendere a tutto il mondo il tenore di vita degli americani ci vorrebbero cinque pianeti: uno come campi, uno come oceani, uno come miniere, uno come foreste, uno come discarica di rifiuti. Noi non abbiamo quattro pianeti di scorta, con questo unico pianeta dobbiamo raggiungere due obiettivi fondamentali: dobbiamo lasciare ai nostri figli una Terra vivibile e dobbiamo consentire agli impoveriti di uscire rapidamente dalla loro povertà. Noi siamo sovrappeso, ci farebbe bene dimagrire, ma loro non hanno ancora raggiunto il peso forma, per vivere dignitosamente hanno bisogno di mangiare di più, vestirsi di più, curarsi di più, studiare di più, viaggiare di più. E lo potranno fare solo se noi, i grassoni, accettiamo di sottoporci a cura dimagrante perché c’è competizione per le risorse scarse, per gli spazi ambientali già compromessi. La morale della favola è che non si può più parlare di giustizia senza tenere conto della sostenibilità, l’unico modo per coniugare equità e sostenibilità è che i ricchi si convertano alla sobrietà, ad uno stile di vita personale e collettivo, più parsimonioso, più pulito, più lento, più inserito nei cicli naturali.
La sobrietà ci fa paura, ma non significa ritorno alla candela o alla morte per tetano. Sobrietà non va confusa con miseria, come consumismo non va confuso con benessere. In sintesi la sobrietà si può definire come il tentativo di soddisfare i nostri bisogni cercando di usare meno risorse possibile e di produrre meno rifiuti possibile. Un obiettivo che si raggiunge più sul piano dell’essere che dell’avere. Uno stile di vita che sa distinguere tra bisogni reali e quelli imposti, che si organizza a livello collettivo per garantire a tutti il soddisfacimento dei bisogni umani con il minor dispendio di energia, che dà alle esigenze del corpo il giusto peso senza dimenticare le esigenze spirituali, affettive, intellettuali, sociali.
Nella vita di tutti i giorni, la sobrietà passa attraverso piccole scelte fra cui meno auto più bicicletta, meno mezzo privato più mezzo pubblico, meno carne più legumi, meno prodotti globalizzati più prodotti locali, meno merendine confezionate più dolcetti fatti in casa, meno cibi surgelati più prodotti di stagione, meno acqua imbottigliata più acqua del rubinetto, meno cibi precotti più tempo in cucina, meno prodotti confezionati più prodotti sfusi, meno recipienti a perdere più prodotti alla spina, meno prodotti usa e getta più riciclaggio.
Molti abitanti dei paesi ricchi stanno sperimentando la sobrietà e stanno constatando che non solo è possibile, ma addirittura conveniente. Non tanto per il portafogli, quanto per la qualità della vita. Per troppo tempo abbiamo accettato l’idea che il benessere si misura con le quantità di cose che gettiamo nel carrello della spesa, ma questo non è benessere è benavere. È un’idea di benessere che concepisce la persona umana come un bidone aspiratutto, un tubo digerente con la bocca sempre ben spalancata per inghiottire tutto ciò che la pubblicità propone e uno sfintere anale sempre ben aperto per espellere una montagna di rifiuti. Un canale di collegamento fra il supermercato e la fogna, a ciò ci riduce il consumismo. È arrivato il tempo di ribellarci a questa concezione della persona affermando che oltre che corpo, siamo anche dimensione affettiva, dimensione spirituale, dimensione intellettuale, dimensione sociale. Il vero benessere è quella situazione in cui tutte queste dimensioni sono soddisfatte in maniera armonica. Ed è bene insistere sul concetto di armonia perché se perseguiamo una sola di questa entriamo in rotta di collisione con tutte le altre. Noi lo constatiamo tutti i giorni su noi stessi: per comprare molto, abbiamo bisogno di molti soldi, per guadagnare molti soldi passiamo molto tempo al lavoro. Ci si affanna, si corre, si maledice il tempo che scappa. Otto ore di lavoro non bastano più, è necessario fare lo straordinario. Le ore passate fuori casa crescono, non c’è più tempo per noi, per il rapporto di coppia, per la cura dei figli, per la vita sociale. Bisogna andare di fretta. Compaiono le insonnie, le nevrosi, le crisi di coppia, i disagi tenuti a bada con le sostanze. Il 39% degli europei dichiara di sentirsi stressato. Cresce la microcriminalità dei giovani abbandonati a se stessi, cresce la solitudine dei bambini che si gettano nelle braccia della televisione.
Quando le parole sono logore vanno cambiate. Ed ecco il benvivere, un termine coniato dagli indios dell’America Latina, che sta a indicare una situazione di armonia con se stessi, con gli altri, con la natura. Un obiettivo che non dipende tanto dalla disponibilità di risorse, quanto dalle formule organizzative dell’abitare, del lavorare, del fare comunità, del prendersi cura dell’ambiente. Per benvivere in città serve verde, centri storici chiusi al traffico, piste ciclabili, trasporti pubblici adeguati, piccoli negozi diffusi, punti di aggregazione. Per beneabitare servono piccoli condomini con spazi e servizi comuni che favoriscono l’incontro. Per benlavorare servono piccole attività diffuse sul territorio per evitare il pendolarismo e favorire la partecipazione. Per benrelazionarsi servono tempi di lavoro ridotti, pause televisive, tranquillità economica, per favorire il dialogo e la distensione familiare. Tutto ciò non richiede barili di petrolio, ma scelte politiche.
Benché la sobrietà orientata al benvivere abbia evidenti vantaggi, molti ne hanno paura per le ricadute sociali: se consumiamo di meno come la mettiamo con i posti di lavoro? E se produciamo di meno chi fornirà allo stato i soldi per i servizi pubblici?
Nella nostra testa abbiamo ben chiaro che se vogliamo creare posti di lavoro dobbiamo consumare di più, tant’è in periodo di crisi tutti ci dicono che la soluzione è il consumo. In nome dell’occupazione, il consumo ha assunto un valore sociale, anche i più convinti sostenitori della sobrietà non sanno che fare: consumare di meno per il bene del pianeta o consumare di più per il bene dell’occupazione? Questo è il dilemma.
Stesso ragionamento per i servizi pubblici. Sappiamo che la capacità della macchina pubblica di fornirci servizi dipende dalla sue entrate fiscali, ma le tasse non vuole pagarle nessuno. Le pagano malvolentieri i poveri e ancor meno i ricchi. Tuttavia vorremmo tutti una buona sanità, una buona scuola, treni puntuali e puliti, processi veloci, una burocrazia efficiente. Poche tasse e molti servizi, ecco ciò che vorremmo, la classica botte piena e la moglie ubriaca.
I politici lo sanno e il coniglio che tutti i governi tirano fuori dal cilindro si chiama crescita. È una questione di numeri. Se applichiamo un’aliquota del 10% su una ricchezza di 1.000, si incassa 100, se applichiamo la stessa aliquota ad una ricchezza di 10.000, si incassa 1.000. La stessa aliquota riesce a generare un gettito più alto nella misura in cui cresce la torta su cui effettuare il prelievo. Di qui la conclusione di tutti i governi, sia quelli di destra che di sinistra: “Volete molti servizi e basse aliquote fiscali? Allora facciamo crescere l’economia”.
Finché c’erano i margini di crescita, il discorso non faceva una grinza, ma come organizzarci oggi che non possiamo più crescere e anzi dobbiamo ridurre?
Occupazione e gettito fiscale sono la dimostrazione che questione ambientale e questione sociale sono due temi indissolubili, se affrontiamo l’uno senza preoccuparci dell’altro, rischiamo di costruire una società verde e pulita, ma al tempo stesso più ingiusta. E sicuramente sarà ingiusta se lasciamo che il problema della scarsità venga risolto dal mercato secondo i suoi meccanismi.
Il mercato ci è stato presentato come un sistema che distribuisce ricchezza, in realtà è un sistema per razionare. Il mercato va fiero della sua capacità di razionare le risorse scarse, peccato che lo faccia in maniera classista basandosi unicamente sul censo. Il meccanismo di razionamento del mercato è l’aumento dei prezzi: non dà a chi ha bisogno, dà a chi ha soldi da spendere. Il giorno che la benzina dovesse costare 20 euro a litro se ne consumerà molto di meno, alle pompe di benzina non ci sarà più la coda, si fermeranno poche auto, ma tutte di grande cilindrata. Poi sfrecceranno a 300 all’ora nelle autostrade ormai vuote. E gli altri? Andranno semplicemente a piedi, come succede nelle grandi metropoli del Sud del mondo.
Il grande nodo che dobbiamo affrontare non è come salvare il pianeta. La sfida è come salvare il pianeta e garantire a tutti una vita dignitosa. Equilibrio ambientale ed equilibrio sociale, ecco il grande obiettivo perseguito da sempre dall’umanità, forse oggi possiamo raggiungerlo perché abbiamo la tecnologia per farlo. Ma la tecnologia da sola non basta, ci serve anche una nuova ingegneria economica.
Il compito è arduo, la nostra mente trasuda di cultura mercantile, abbiamo difficoltà ad immaginare altre forme organizzative all’infuori del mercato, ma possiamo farcela se ci ispiriamo ad altri valori.
Ad esempio è tempo di affermare che l’obiettivo non è il lavoro, ma le sicurezze, che non si ottengono solo tramite il salario, ma anche tramite il fai da te e l’economia pubblica. Soprattutto l’economia pubblica che in una società civile deve occuparsi di diritti: acqua, energia, alloggio, trasporti, sanità, istruzione. Bisogni fondamentali che in un contesto di scarsità debbono avere la priorità. Per questo dobbiamo smetterla di concentrarci sul mercato e dobbiamo focalizzarci sull’economia pubblica cominciando a chiederci come possiamo mantenerla sempre in buona salute senza costringere l’economia generale a crescere. Questa è la vera sfida.
Oggi l’economia pubblica è legata a doppio filo all’economia privata perché si basa sul gettito fiscale: se l’economia privata cresce, incassa molto e può fornire molti servizi, se l’economia privata si contrae anche l’economia pubblica va in crisi e fornisce meno servizi proprio quando dovrebbe garantirne di più. Il solo modo per uscire da questo circolo vizioso si chiama autonomia: l’economia pubblica non più concepita come una struttura di spesa che trae linfa dall’economia privata, ma come una forza produttiva che genera ricchezza in maniera autonoma. Un obiettivo che si può raggiungere facendo funzionare l’economia pubblica non con la tassazione del reddito, ma con la tassazione del tempo: tutti chiamati a passare parte del nostro tempo in un servizio pubblico perché il lavoro è la risorsa più abbondante che abbiamo ed è la fonte originaria di ogni ricchezza. Il nuovo patto che potremmo immaginare fra cittadini e collettività potrebbe essere del seguente tenore: tutti gli abili al lavoro mettono a disposizione del pubblico parte del loro tempo e in cambio ricevono, dalla culla alla tomba, servizi gratuiti e un reddito d’esistenza per i bisogni materiali di base. Il che non significa abolizione totale del sistema fiscale, ma radicale cambiamento di scopo: non più fonte di finanziamento dell’economia pubblica, ma strumento per indirizzare il mercato: una leva per spingere consumatori e imprese verso scelte di maggior rispetto ambientale e sociale.
Fantapolitica? Forse. Ma una cosa è certa: il deterioramento ambientale sta correndo più veloce di quanto immaginiamo, il tempo delle vacche magrissime potrebbe arrivare quando meno ce lo aspettiamo. E allora saranno giorni duri se non avremo progettato come organizzare un’altra economia capace di garantire a tutti i bisogni fondamentali pur disponendo di meno. Solo rimettendo la testa su un progetto alternativo potremo evitare il ritorno delle barbarie dove pochi forti condurranno una vita da nababbi mentre la massa morrà di stenti.

Intervento conclusivo al Convegno Nazionale della Rete Radié Resch - 14-15-16 maggio 2010 “Nuove speranze in una economia di crisi”